La mostra fotografica di Giovanna Dal Magro, Milano anni ’70. Quando pensavamo di cambiare il mondo (testi di Alberto Maria Prina), fino al 29 giugno alla Galleria Il Milione in via Maroncelli 7 a Milano, da un lato riporta indietro nel tempo a quel decennio di battaglie, ideali, speranze, passioni, denso e intenso come pochi altri. Dall’altro è molto attuale, pur mostrando un passato irrimediabilmente lontano e concluso, nelle istanze che pone. In un’epoca vacua come quella in cui viviamo attualmente, dove le conquiste degli anni Settanta vengono fagocitate da una società ipercapitalista e soffocante, serve innanzitutto la memoria.
Ricordare che quelle battaglie e quelle conquiste non sono state né facili né gratuite e che, purtroppo, in una certa misura andranno ricombattute e riconquistate. L’idea dell’immaginazione al potere sarà stata ingenua, ma era bella, dava spazio, dava ironia, dava speranza e oggi ne avremmo ancora molto bisogno. Ma veniamo alla fotografia di Giovanna Dal Magro (www.giodal.it).
Bellissimi ritratti di uomini e donne di cultura, di teatro, del mondo dell’arte e degli ambiti in cui operavano, immagini di manifestazioni e scioperi, accomunati dal pathos che irrorava gli anni delle grandi trasformazioni e da quello personale della fotografa sempre nel posto giusto al momento giusto in quella prima linea sufficientemente vicina al soggetto da inquadrare, sufficientemente distante da vederlo. In alcune occasioni spettatrice, in altri parte in gioco in incontri molto forti.
A seguire l’intervista a Giovanna Dal Magro. Tutte le fotografie sono di Giovanna Dal Magro.
Perché una mostra sull’epoca della contestazione?
Perché riguardando le fotografie e i provini di quello che non avevo stampato, ma prodotto in quel periodo, mi sono resa conto della quantità di eventi e personaggi che avevo incrociato, a volte tanti nella stessa settimana o mese. Ne ho parlato con Chicca Ghiringhelli, la gallerista de Il Milione. Avevo vissuto intensamente quegli anni attraverso le gallerie che frequentavo, da un lato e dall’altro attraverso i grandi scioperi e le manifestazioni di piazza. Da poco avevo cominciato a fotografare e tutto mi risultava interessante. Coltivavo la passione per la stampa in camera oscura e rivivevo in quell’ambiente gli eventi e i personaggi, come se li facessi rinascere dall’acido.

In quale occasione hai fotografato Gillo Dorfles e com’è andata?
È stato il mio primo ritratto a un personaggio importante. Ero stata incaricata da una rivista, Gillo Dorfles mi accolse malissimo mostrandomi fotografie di fotografi famosi, che giudicava orrende, e dicendomi che nessuno era mai riuscito a fotografarlo.
Capii che dovevo riuscirci assolutamente, altrimenti non avrei più avuto il coraggio di fotografare nessuno. Lo feci uscire di casa con cappotto e cappello e mentre lo distraevo facendomi raccontare dei palazzi liberty, feci le fotografie che amò molto per sempre, le famose “foto con il cappello”. Mi fu molto riconoscente e in un articolo sul Corriere della Sera, per i 150 anni della nascita della fotografia, mi citò tra i quattro fotografi italiani degni di considerazione.
Quali erano le gallerie che frequentavi più assiduamente e come si caratterizzavano?
Il Milione, storica galleria nata nel 1930, che presentava pittori molto importanti, Il Diagramma, che per prima aveva aperto le porte alla performance, la Galleria Marconi, che promuoveva giovani artisti, e lo Studio Carla Ortelli, in viale Bligny dove Carla viveva con il marito artista Turi Simeti e promuoveva performance e artisti concettuali.

Come hai avvicinato e fotografato lo scultore giapponese Kengiro Azuma?
Lo conobbi quando un assistente giapponese del fotografo presso il quale ero a mia volta assistente andò a fotografarlo nel suo studio alla Bovisa e me lo presentò. Oggi, dopo la morte di Kengiro Azuma lo scorso anno, nello studio ci sono la moglie e i figli. Kengiro era vivacissimo, lo chiamavo “il napoletano”, era affettuoso, mi saltava quasi in braccio, rideva, si divertiva, era l’opposto di quello che ci si immagina di un giapponese. Per anni andai a trovarlo nel suo studio e riuscii a festeggiare con lui i suoi 90 anni. C’è una sua scultura davanti al Cimitero Monumentale.

In quale occasione hai fotografato Alberto Longoni?
Era un amico di famiglia, mio figlio Ulisse è cresciuto con lui. Alberto Longoni, che aveva lo studio in via Pasolino da Panicale, disegnava sempre e faceva disegnare mio figlio. Ho tante fotografie di Alberto. Non era conosciuto, ma era un personaggio, un disegnatore fantastico, ho in casa alcune sue opere bellissime. I suoi acquerelli avevano la stessa bellezza di quelli di Klee o Kandinsky.

Come hai conosciuto e fotografato Marina Abramovic?
La prima volta fu in occasione della sua performance Ritmo 4 presso la galleria Il Diagramma, in via Pontaccio. Rividi spesso Marina Abramovic nel periodo che trascorse a Milano, poi la incontrai nuovamente in occasione di una sua performance a Bologna con l’artista Ulay – con il quale aveva vissuto in un pulmino nella periferia milanese – e rimanemmo sempre in contatto.
Ha sempre utilizzato le mie fotografie nei libri e nei cataloghi in giro per il mondo, prometteva di mettere il mio nome ma non fu sempre di parola. La rividi al PAC qualche anno fa quando fece un lavoro ideato per il PAC e poi alla Biennale del Cinema a Venezia dove per un anno fu nella giuria. Ero molto irritata perché non aveva inserito il mio nome su 12 pagine di mie fotografie in un catalogo del PAC, che andò in 37 paesi del mondo. La rividi nel 2017 ad Alba, dove fece una performance invitata dalla famiglia Ceretto.

Hai fotografato l’attore, performer e pittore svizzero Urs Luethi: come l’hai conosciuto?
Lo fotografai allo Studio Marconi per la sua performance Mille rose rosse. Incontrai nuovamente Urs Luethi, che fu un pioniere della Body Art e dell’arte concettuale, intorno al 2010, dopo 40 anni, a Milano. Insieme realizzammo una cartella speciale che è un multiplo 1/22 che si presenta in un’elegante confezione grigia contenente un trittico di fotografie e testi critici di quella performance firmato da entrambi. In seguito lo fotografai quando fece una mostra importante alla Galleria Sozzani.

In quale occasione hai fotografato l’attore cileno Francisco Copello e com’è andata?
Ero stata invitata al Diagramma da Luciano Inga Pin, che era critico d’arte, gallerista ed editore, per fotografare un nuovo artista, cileno, arrivato da New York, che aveva una mostra in corso. Mi presentò Francisco Copello, attore, mimo, danzatore, scrittore, che si presentò con delle lunghe piume in testa, e mi disse: “fotografalo, è un personaggio interessante”. Fu solo in seguito che tra noi nacque un’intesa professionale così forte che durò, con alcuni intervalli, una decina d’anni.
Fotografavo i suoi momenti di espressione performativa sempre nel mio studio in via Bramante, dove nessuno era ammesso a vedere il lavoro. Penso di avere superato i 2000 scatti, era una cosa rara per me fotografare uno stesso personaggio per tanti anni. Il lavoro era reciproco: Francisco veniva invogliato a creare nuove situazioni dalla mia comprensione e disponibilità. È stato molto intenso e bello.
Degli altri personaggi importanti che hai fotografato senza avere un rapporto diretto cosa ricordi?
Ero semplicemente sul posto quando le cose succedevano, come al palazzetto dello Sport con 12 mila persone ad ascoltare gli Inti Illimani, che cantavano le canzoni di protesta: è stata una grande emozione, amplificata dalla vastità del pubblico.
Molto emozionante fu anche assistere allo spettacolo di Victoria Chaplin ideatrice, con il marito Jean-Baptiste Thierrée, del Cirque Imaginaire, un circo poetico dal quale prese poi ispirazione il Cirque du Soleil. Mi trovavo miracolosamente sempre davanti, nel posto giusto per fotografare, come nella Galleria Vittorio Emanuele II quando i ragazzi gridavano slogan davanti all’happening della compagnia teatrale d’avanguardia che era il Living Theatre. Fu un’esperienza molto forte.
Anche durante gli scioperi e le manifestazioni ero in mezzo, ma riuscivo a non farmi schiacciare, ad avere la giusta collocazione per fotografare. Nel caso di Franco Vaccari, fu lui che mi chiamò perché voleva che fotografassi una sua azione, “Una giornata al Cobianchi”, che rimase nel suo curriculum di artista concettuale. Tutte le performance e gli artisti che vedevo per la prima volta, come John Cage o Andy Warhol, ma anche Bruno Munari, mi lasciavano impressioni molto forti, che rivivevo a volte anche con maggior pathos quando stampavo le fotografie. In camera oscura l’emozione era addirittura amplificata.


Milano anni ’70. Quando pensavamo di cambiare il mondo
Prorogata fino al 29 giugno. Orari di visita: lun-ven 10.30-12.30 e 16-18.30.
Si prega di telefonare per avere ulteriore conferma degli orari.
Galleria Il Milione, via Maroncelli 7 a Milano
www.galleriailmilione.it
Tel. 02.29063272