
È stata presentata in occasione della settimana del Fuori Salone alla Fondazione Pini in corso Garibaldi 2 a Milano, la mostra L’ora dannata di Carlos Amorales. Fortunatamente, chiuso il Fuori Salone e smaltite le code sul marciapiedi di corso Garibaldi, c’è tempo fino all’8 luglio per vedere l’esposizione, e ne vale la pena. Negli affascinanti spazi della palazzina di fine Ottocento della Fondazione Pini un volo di quindicimila farfalle nere è l’installazione di dimensioni ambientali Black Cloud, il cuore della mostra. L’esposizione include alcuni elementi del progetto La vida en los pliegues (letteralmente, La vita nelle pieghe) con la quale l’artista ha rappresentato il Messico alla 57 Biennale di Arte di Venezia (a seguire l’intervista). Il titolo, e non solo, è un invito a cercare la vita nelle pieghe, negli interstizi, nelle cose più piccole. In mostra sono presenti una serie di ocarine in ceramica e disegni su carta e il video di animazione che racconta una storia intima e universale allo stesso tempo, la vicenda di una famiglia di migranti linciata all’arrivo in una città straniera, ma anche la personale migrazione dell’artista. Le didascalie sono scritte in un alfabeto criptato e quindi incomprensibile, che sprona lo spettatore a mettere in discussione interpretazioni scontate della realtà. Amorales è un artista multidisciplinare, che ha esplorato molti linguaggi, dalle arti visive alla grafica, dall’animazione e il cinema alla musica, dalla letteratura e la poesia alla performance. Ha lavorato con disegnatori, musicisti, artisti, scrittori, psicoanalisti. Il suo lavoro, che ha molto a che vedere con il linguaggio e la comunicazione, sprona a guardare la realtà in modo nuovo proponendo nuove forme di immaginazione, grazie a diversi supporti, e attivando riflessioni non convenzionali.
Orari di visita: 10-13 e 15-17
Carlos Amorales è un uomo riservato. Un artista raffinato. Un poeta. Rappresenta il Messico alla 57 Biennale di Arte di Venezia. Il padiglione che abita con le sue opere è bellissimo a saper guardare. Un’installazione composita e affatto monumentale fatta di dettagli. Gioca con i segni, parla un linguaggio intimo e universale. Segni-disegni appesi alle pareti, “solo fotocopie” come sottolinea l’artista messicano poliedrico e multidisciplinare. Ocarine in ceramica disposte su tavoli, nere come l’ossidiana. Musicisti le suonano alla cerimonia di inaugurazione. Un cortometraggio racconta la storia della personale migrazione dell’artista, delle migrazioni, della sua famiglia, delle famiglie, nel mondo. L’accompagna un suono pervasivo che pone questioni, parte viva dell’opera, non sottofondo. Nel padiglione viene distribuito un giornale scritto in un linguaggio criptato inventato dall’Amorales. Geniale e delizioso. “La vita nelle pieghe“, il titolo dell’opera che si riferisce al romanzo di Henri Michaux del 1949, è un invito a cercare la vita nelle pieghe, negli interstizi, nelle cose più piccole.
Lei è un’artista affermato sulla scena internazionale. Sono andata a cercare il Messico nel suo lavoro e ho trovato una storia, che lascia trapelare l’ironia e il senso dell’umorismo messicani. Mi racconti la storia del nuovo cognome.
Mi chiamo Carlos Aguirre Morales. Quando avevo circa diciotto anni, iniziai a giocare con le parole “Carlos amoral es”, che poi modificai in Carlos Amorales. Il nome divenne tanto importante da trasformarsi in un’identità, nella quale mi sono identificato. L’invenzione del nuovo cognome è stato l’inizio di una ricerca, il filo conduttore. La parola è la prima cosa che cambia e a partire dalla parola possiamo cambiare il mondo. Ho iniziato a utilizzare Carlos Amorales come nome d’arte per distinguermi da mio padre, Carlos Aguirre come me, come si usa in Messico. Così sono diventato artista, poi per emanciparmi dai miei genitori, artisti entrambi, sono partito per New York, quindi per Londra, infine per Amsterdam, dove sono rimasto quindici anni.
In che modo Carlos Amorales è diventato un personaggio con vita propria, un alter ego?
La mia formazione era classica, sono partito dalla pittura, avevo bisogno di trovare un modo, un oggetto artistico da integrare nella mia vita. Trovai la maschera del luchador di lucha libre messicana, che è acrobatica, è uno sport ma è anche spettacolo e molto antico. Tornai in Messico per farmi fare un ritratto in forma di maschera, in forma di Amorales. La maschera per me divenne linguaggio e per parlarlo avevo bisogno di complici. Iniziai a lavorare con l’artista olandese Gabriel Lester al quale diedi la maschera. Creai un doppio e realizzai performance in pubblico con Gabriel, che interpretava l’altro Amorales. Quando ci si mette la maschera si entra in uno spazio di fantasia, di anonimato, di sospensione della realtà. In questo modo Amorales si fece conoscere in quanto personaggio anonimo, prima che come artista.


Lei ha esplorato molti linguaggi artistici. Cosa vuole comunicare l’installazione La vida en los pliegues, che mette insieme immagini, parole, suoni, animazione, performance?
L’installazione parla anche della mia vita, che però nascondo. Sono figlio unico di genitori artisti, che erano in conflitto con la società, poi divorziarono e forse questo mi portò a emigrare. Il cortometraggio narra la migrazione e il linciaggio di una famiglia di migranti all’arrivo in una città straniera, ma anche una storia molto personale e il linciaggio di mia madre artista emarginata dopo il divorzio. L’arte è un mezzo di comunicazione violentemente pubblico, ma parla di se stessi, tuttavia è rivolta all’altro. L’installazione è semplice, fatta di piccole cose, poesie, ocarine, anche fotocopie, per suggerire nuove forme di immaginazione grazie a diversi supporti. Racconto la storia di una famiglia, una storia sullo stato di salute del mondo di oggi.


Il Messico oggi non gode di buona salute per il narcotraffico, la corruzione e il mancato rispetto dei diritti umani. Qual è il ruolo dell’arte nel suo Paese?
Lo Stato messicano non sta prendendo il suo ruolo seriamente, non crediamo nello Stato, sarebbe più facile per uno scrittore denunciare, io dico molto velatamente da almeno 10 anni che il nostro Stato è disfunzionale. Oggi credo che più il linguaggio dell’arte diventa sofisticato, meno comunica. Bisogna ritornare a raccontare, dire, esprimere pensieri. Oggi noi artisti non possiamo essere passivi, dobbiamo fare, agire.
Il Messico è un Paese di giovani, che offre, almeno a Città del Messico, molte possibilità di espressione artistica. Qual è il messaggio che si sente di dare ai giovani artisti?
In Messico c’è molta energia creativa e si crede ancora che si possano fare cose, farsi coinvolgere, ognuno a proprio modo. È quello che faccio nel mio atelier. Non amo lavorare da solo tranne quando disegno, mi circondo di persone di ogni tipo con le quali condividere, scambiare idee, progettare. Lavoro con giovani artisti incitandoli a mettersi in gioco, a prendersi delle responsabilità. Ognuno può fare qualcosa. Se partecipi, c’è speranza. El mundo esta para inventarse: il mondo è da inventare, questo è il messaggio per i giovani.